Dic 15

Anche la Banca d’Italia conferma, Minibot e CCF vietati dai trattati UE.

L’argomento di un riscatto parziale della sovranità monetaria attraverso monete complementari, sia che esse assumano la forma dei certificati di credito fiscale che dei minibot è estremamente caldo. La lega nord infatti usa il tema per attirare gli elettori “no euro” a votare in favore di un centro destra che in verità è più europeista che mai.

Io ho da tempo spiegato giuridicamente che i trattati, per quanto riguarda le nazioni aderenti all’UEM, attribuiscono la politica monetaria, in senso omnicomprensivo a Bruxelles, e dunque ogni tentativo in questa direzione avrebbe provocato la reazione UE ancor prima che la nuova moneta venga distribuita ai cittadini. La chiusura delle banche e l’assenza di altri mezzi di pagamento già pronti per ovviare ad essa, oltre che l’assenza di un piano industriale (e geopolitico) propedeutico all’exit, rendono tali soluzioni semplicemente un trucco politico, che mai verrà attuato poiché sarebbe solo la certa ricetta per un disastro epocale. 

Ma veniamo alle argomentazioni tecniche della Banca d’Italia (clicca qui per leggere l’interessante articolo integrale), argomentazioni assolutamente aderenti alla realtà. In particolare il passaggio degno di nota è questo: 

“il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (art. 128) e il Regolamento EC/974/98 (art. 2, 10 e 11) stabiliscono, infatti, che le banconote e le monete metalliche in euro sono le uniche con corso legale nell’unione monetaria. All’emissione la moneta fiscale svolgerebbe solo la funzione di riserva di valore, e da questo punto di vista sarebbe del tutto simile a un titolo di Stato. Sulla base della legislazione vigente tale “moneta” potrebbe essere utilizzata come mezzo di pagamento solo con il consenso del creditore. Pertanto essa sarebbe accettata con sicurezza solo dallo Stato il quale si impegnerebbe ad accettarla in compensazione dei propri crediti fiscali nei confronti del detentore.

Qualora invece lo Stato decidesse unilateralmente di liberarsi di propri debiti con un pagamento eseguito in moneta diversa dalla moneta legale si prefigurerebbe una violazione di quanto previsto dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dal Regolamento EC/974/98, con elevata probabilità di contenzioso e negative ripercussioni di carattere reputazionale presso i potenziali sottoscrittori dei titoli di debito pubblico.

Il discorso poi è addirittura più esteso di quanto racconta Banca Italia visto che è l’art. 3 TFUE ad attribuire tutta la politica monetaria, in senso ovviamente omnicomprensivo, all’Unione Europea e dunque se uno strumento di politica monetaria non è di competenza del sistema europeo delle Banche Centrali è comunque di competenza UE, con buona pace di chi continua a negare l’evidenza. Non importa quindi se Draghi in passato ha detto di non avere competenza su tali sistemi di pagamento, se la BCE non la ha Bruxelles ovviamente sì.

Precisamente l’art. 3 TFUE recita L’Unione ha competenza esclusiva nei seguenti settori: (omissis…) politica monetaria per gli Stati la cui moneta è l’euro. Politica monetaria è un quid pluris rispetto alla semplice gestione dell’euro, chi ha l’euro ha rinunciato tout court alla sovranità monetaria con le sole due eccezioni di cui dirò a fine articolo. L’art. 2 TFUE è poi chiaro nel dire cosa significhi cedere competenza esclusiva all’UE ovvero quando i trattati attribuiscono all’Unione una competenza esclusiva in un determinato settore (nella specie le politiche monetarie, n.d.s.), solo l’Unione può legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti”. Ovvero se il Governo italiano varasse un decreto o comunque una legge con cui si adottasse uno strumento di politica monetaria alternativo, a prescindere dal nomen iuris adottato, violerebbe i trattati. Per inciso io non ho nulla in contrario al violare i trattati, anzi vorrei cestinarli, ma è ovvio che prima di fare guerra al tuo nemico devi anche essere ragionevolmente pronto da pensare di vincerla.

Fermo restando poi che a proposito di possibilità di vittoria, su tutte le dissertazioni giuridiche, poi prevale la realtà, ovvero la considerazione che dovrebbe essere ovvia che a prescindere dalla legittimità di un certo comportamento sotto il profilo giuridico, Bruxelles reagirebbe con la forza ad ogni nostro tentativo di riscattare la sovranità.

In sostanza finché i nostri pagamenti dipendono da banche private, ogni nostra reazione è destinata a fallire. Abbiamo bisogno del controllo del credito per uscire dall’euro oltre che di un dettagliato piano industriale per poi utilizzare la ritrovata sovranità. Peraltro solo un piano industriale fortemente autarchico in ciò che è indispensabile per la stessa vita nel Paese, può garantirci dalle ritorsioni del nostro nemico e può consentire alla maggioranza di reggere l’impatto dell’exit.

Nelle prime fasi, benché io sia fortemente contrario ad un’economia di esportazioni, poiché il forzare le stesse, come peraltro ricordava Keynes, implica il conflitto tra gli Stati nel lungo periodo, potrebbe comunque essere una buona idea utilizzare la nostra sovranità per vendere beni a produzione integralmente interna che ci consentano di ottenere valuta accettata per l’acquisto di materie prime indispensabili.

Ma torniamo al tema originario ovvero acclarato senza tema di smentita che ogni strumento per attuare politica monetaria è giuridicamente illegittimo e porterà alla reazione di Bruxelles, occorre chiedersi se ci siano dei piccoli margini di difesa all’interno dei trattati stessi, almeno affinché una maggioranza futura che abbia stupidamente omesso di preparare l’exit prima delle elezioni, abbia ancora una carta da giocarsi.

Due sono i possibili metodi per esercitare una parziale sovranità monetaria all’interno dei trattati UE:

-coniare monete metalliche;

-disporre di banche pubbliche.

Dei due strumenti il secondo è quello di gran lunga più importante, massicciamente utilizzato in Germania, che peraltro conia anche monete metalliche di taglio addirittura superiore ai due euro (da cinque euro per la precisione), è espressamente consentito dall’art. 123 TFUE norma che al primo comma vieta alla Banca Centrale di svolgere la funzione di prestatrice di ultima istanza in favore dello Stato e delle altre amministrazioni pubbliche, ma che al secondo comma recita: Le disposizioni del paragrafo 1 non si applicano agli enti creditizi di proprietà pubblica che, nel contesto dell’offerta di liquidità da parte delle banche centrali, devono ricevere dalle banche centrali nazionali e dalla Banca Centrale Europea lo stesso trattamento degli enti creditizi privati“.

Vero è che l’offerta di liquidità rimane pur sempre nelle corde di BCE, ma è altrettanto vero che se avessimo banche commerciali pubbliche potremmo emettere “moneta elettronica”, ovvero l’unico strumento di pagamento ammesso in alternativa alla moneta avente corso legale, ovvero l’euro. La moneta elettronica è infatti una mera promessa di pagamento senza corso legale forzoso in linea di principio (benché oggi determinate norme ne impongano impropriamente l’utilizzo obbligatorio), ma che agli effetti pratici è comunemente accettata dai cittadini come reale denaro poiché asseritamente convertibile in esso.

Per il nostro ordinamento è l’art. 114 bis del Testo Unico Bancario a disciplinarla autorizzando anche le amministrazioni dello Stato, Comuni e Regioni comprese, a diventare istituti di emissione di moneta elettronica. Ovvero istituti che nel rispetto delle regole del settore avrebbero comunque la facoltà di espandere il credito e tamponare temporaneamente la rarefazione monetaria nell’economia reale derivante dalle regole dell’euro.

Chi sarà così stupido (ammessa e non concessa la buona fede) di andare al governo senza essere pronto all’exit, nelle more della sua preparazione, avrebbe solo queste due strade. Tutto il resto porterebbe al disastro. 


Avv. Marco Mori, autore de “Il tramonto della democrazia, analisi giuridica della genesi di una dittatura europea” disponibile on line su ibs.