Set 16

Keynes, una lettura indispensabile per tutti coloro che voglio fare politica

Pubblico con piacere un saggio breve del grande John Maynard Keynes del 1933 dal titolo “Autarchia Economica”. Un’opera fondamentale perché demolisce uno dei mantra dell’attuale scenario politico, quello della presunta mancanza di coperture economiche per la spesa pubblica, nonché il mantra che la forte interconnessione economica tra gli Stati conduca alla pace.

Leggete e aprite la mente…

 

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Come la maggior parte degli inglesi, io sono stato allevato al rispetto della libertà di commercio, non solo come una dottrina economica che non può essere messa in dubbio da una persona ragionevole e istruita, ma quasi come un capitolo della legge morale. Ne consideravo le violazioni come imbecillità e al tempo stesso come fatti perversi. Ero persuaso che le incrollabili convinzioni liberiste, a cui l’Inghilterra teneva fede da quasi un secolo, fossero insieme la spiegazione di fronte agli uomini e la giustificazione di fronte a Dio della sua supremazia economica. Ancora nel 1923 scrivevo che il libero scambio era basato su verità fondamentali «le quali, debitamente formulate e precisate, non sono contestabili da nessuno che capisca il significato delle parole» [J.M.K., vol XIX, p.147].

Se oggi riprendo in considerazione le affermazioni che diedi allora di quelle verità fondamentali, non trovo motivo di contestarle. Eppure, l’orientamento del mio pensiero è cambiato; e questo cambiamento è comune a me ed a molti altri. In parte, certamente, sono cambiate le mie basi economiche. Non accuserei più Mr. Baldwin, come feci allora, di essere «una vittima dell’errore protezionista nella sua forma più cruda» perché credeva che, nelle condizioni d’allora, una tariffa doganale potesse contribuire ad alleviare la disoccupazione inglese. Ma, per la maggior parte, io attribuisco il cambiamento nel mio modo di vedere a qualcos’altro, – al fatto che le mie speranze, i miei timori e le mie preoccupazioni, come quelle di molti altri, o dei più, forse, di questa generazione in tutto il mondo, sono diverse da quelle che erano in passato.
Non è tanto facile sbarazzarsi delle abitudini mentali del mondo prebellico e ottocentesco. Ma oggi, finalmente, che siamo a un terzo del XX secolo, la maggior parte di noi sta evadendo dal secolo XIX; e forse, quando avremo raggiunto il 1950, può darsi che le nostre abitudini e i nostri interessi mentali siano tanto diversi dai metodi e dai valori del secolo XIX quanto quelli di ogni altro secolo sono stati diversi da quelli del secolo che lo ha preceduto.
Può dunque essere utile tentare una specie di inventario,  un’analisi,  una diagnosi, per scoprire in che cosa essenzialmente consista questo mutamento di mentalità.

Che idea si facevano della loro azione i liberisti dell’ottocento, che furono uomini tra i più idealistici e disinteressati?
Essi credevano, – ed è forse dovere di lealtà notare questo punto per primo, – di essere uomini perfettamente giudiziosi, di essere anzi, i soli uomini perspicaci, e che le direttive politiche che cercavano di interferire con l’ideale divisione internazionale del lavoro fossero sempre il frutto dell’ignoranza derivante dall’egoismo.
In secondo luogo, essi credevano di risolvere il problema della povertà, e di risolverlo per il mondo intero, utilizzando nel miglior modo possibile, come una brava massaia, le risorse e i talenti di tutto il mondo.
Essi credevano, inoltre, di servire, non soltanto la sopravvivenza del più idoneo dal punto di vista economico ma anche la grande causa della libertà, della libera scelta per l’iniziativa personale e il talento individuale, la causa dell’ingegno e dello spirito creativo, svincolato da tutte le pastoie, in lotta contro le forze del privilegio, del monopolio e della sclerosi senile.
Essi credevano, infine, di essere gli amici e i garanti della pace, della concordia internazionale e della giustizia economica tra le nazioni, nonché i propagatori dei benefici del progresso.
E se il poeta di quel tempo era preso, qualche volta, dalla strana inclinazione di vagare lontano, là dove non giunge mai il mercante, e di afferrare il camoscio per il pelo, la reazione rassicurante lo coglieva subito dopo:

Io, accodarmi con menti ristrette, vuote dei nostri gloriosi saperi,
Come una bestia con bassi piaceri, come una bestia con ignobili pene!
(Tennison, Locksley Hall)

 


 

II

 

Che cosa abbiamo da obbiettare noi? Guardando le cose in superficie, niente. Eppure noi – molti di noi – non sono soddisfatti di queste idee in quanto teoria politica funzionante. Che cosa c’è che non va.
Cominciamo con la questione della pace. Oggi noi siamo pacifisti con così vigorosa convinzione che, se l’internazionalista economico riuscisse ad averla vinta su questo punto, in breve egli riotterrebbe la nostra adesione. Ma oggi non pare ovvio che il concentrare gli sforzi di una nazione nella conquista del commercio estero, che la penetrazione dell’economia di un paese da parte delle risorse e dell’influenza di capitalisti stranieri, e che una stretta dipendenza della nostra particolare vita economica dalle ondeggianti politiche economiche dei paesi stranieri, siano salvaguardie e garanzie di pace internazionale. Alla luce dell’esperienza e della prudenza, è più facile giungere alla conclusione opposta. La protezione degli interessi esteri di un paese, la conquista di nuovi mercati, i progressi dell’imperialismo economico, non sono che elementi difficilmente evitabili di uno schema, che mira al massimo di specializzazione internazionale e alla massima diffusione geografica del capitale senza riguardo a dove risieda il suo proprietario. Spesso, opportune direttive economiche interne potrebbero essere adottate più facilmente, se si potesse eliminare quel fenomeno conosciuto col nome di «fuga dei capitali». La separazione tra la proprietà del capitale e la reale direzione dell’impresa è già una cosa preoccupante all’interno di un paese, dove, come conseguenza della diffusione delle imprese in forma di società anonima, la proprietà è spezzettata tra innumerevoli individui che comprano la loro partecipazione oggi e la rivendono domani, e mancano totalmente così di conoscenza come di responsabilità per quello di cui sono momentaneamente proprietari. Ma quando il medesimo principio viene applicato su una scala internazionale, esso, nei tempi difficili, diventa intollerabile: – io sono irresponsabile verso ciò che possiedo e quelli che amministrano ciò che possiedo sono irresponsabili verso di me. Ci può essere pure qualche formula di calcolo finanziario, che dimostri essere vantaggioso che i miei risparmi vengano investiti in quella parte qualsiasi del mondo abitabile dove si ha la massima utilità marginale del capitale o il più alto saggio d’interesse; ma le esperienze si accumulano a dimostrare che, nelle relazioni tra gli uomini, la lontananza tra proprietà e amministrazione è un male, suscettibile a lungo andare di generare tensioni e inimicizie che finiranno col distruggere il calcolo finanziario.

Di conseguenza, io simpatizzo piuttosto con coloro che vorrebbero ridurre al minimo il groviglio economico tra le nazioni, che non con quelli che lo vorrebbero aumentare al massimo. Le idee, il sapere, la scienza, l’ospitalità, il viaggiare, – queste sono le cose che per loro natura dovrebbero essere internazionali. Ma lasciate che le merci siano fatte in casa ogni qualvolta ciò è ragionevolmente e praticamente possibile, e, soprattutto, che la finanza sia eminentemente nazionale. Al tempo stesso, però, coloro che cercano di liberare un paese dai suoi vincoli internazionali dovrebbero essere molto lenti e cauti. Non si tratta di strappare le radici, ma di abituare lentamente la pianta a crescere in un’altra direzione.

Per questi gravi motivi, quindi, io inclino a credere che, una volta che il periodo di transizione sia compiuto, una certa misura di autarchia o di isolamento economico tra le nazioni, maggiore di quello che esisteva nel 1914, possa piuttosto servire che danneggiare la causa della pace. Certo è che l’epoca dell’internazionalismo economico non è stata particolarmente capace di evitare le guerre; e se i suoi fautori replicano che la incompiutezza del suo trionfo le tolse ogni onesta possibilità di dar miglior prova di sé, si può ragionevolmente obbiettare loro che non è molto probabile un suo maggiore successo negli anni a venire.
Ma lasciamo queste questioni opinabili, nelle quali ognuno di noi può restare del suo parere, e passiamo ad un argomento più puramente economico. Nel secolo XIX l’internazionalismo economico poteva sostenere, e probabilmente a buon diritto, che la sua politica tendeva ad aumentare la ricchezza del mondo, che essa promuoveva il progresso economico e che una politica diversa avrebbe gravemente impoverito così noi come i nostri vicini. Questo solleva un problema di equilibrio tra il vantaggio economico e quello non-economico, che è sempre difficile da risolvere. La povertà è un gran male; e il vantaggio economico è un bene reale, da non sacrificarsi ad altri beni reali, a meno che esso non sia chiaramente di un peso inferiore.
Ora, io non ho difficoltà a credere che nell’Ottocento esistessero due serie di condizioni, le quali facevano sì che i vantaggi dell’internazionalismo economico pesassero di più degli svantaggi di altro genere. Quando le grandi migrazioni popolavano nuovi continenti, era naturale che gli uomini portassero con sé nei Nuovi Mondi i frutti materiali della tecnica del Vecchio, in cui si incorporavano i risparmi di coloro che li mandavano. L’investimento di risparmio inglese in rotaie e materiale rotabile da installarsi da ingegneri inglesi per portare emigranti inglesi su nuovi campi e pascoli, i cui frutti essi avrebbero restituito nella debita proporzione a coloro la cui frugalità aveva reso tutto ciò possibile, non era un internazionalismo economico, che, nella sua essenza, rassomigliasse neppure lontanamente all’acquisto di una partecipazione in una società per azioni tedesca da parte di uno speculatore di Chicago, o nei miglioramenti municipali di Rio de Janeiro da parte di una zitella inglese. Eppure, fu proprio il tipo di organizzazione necessario per facilitare la prima operazione che ha finito col condurre alla seconda.

In secondo luogo, quando ancora c’erano tra i vari paesi delle enormi differenze nel grado di industrializzazione e nelle possibilità di addestramento tecnico, i vantaggi di un alto grado di specializzazione nazionale erano molto considerevoli.
Ma io non sono convinto che i vantaggi economici della divisione internazionale del lavoro siano oggi in alcun modo paragonabili con quelli di un tempo. Non vorrei si attribuisse alla mia tesi una rigidità eccessiva.  Un grado considerevole di specializzazione internazionale è necessario, in un mondo razionale, in tutti quei casi in cui è dettato da grandi differenze di clima, di risorse naturali, di attitudini innate, di grado di civiltà e di densità di popolazione. Ma, per un numero crescente di prodotti industriali, e forse anche di prodotti agricoli, sono venuto a dubitare se la perdita economica conseguente all’autarchia nazionale sia così grande da pesare più degli altri vantaggi derivanti dal portare gradatamente il prodotto e il consumatore nell’ambito della medesima organizzazione nazionale, economica e finanziaria. L’esperienza sembra di più in più provare che la efficienza dei più moderni procedimenti di produzione in massa è quasi indipendente dal paese e dal clima. Si aggiunga che, col crescere della ricchezza, i prodotti, così primari come manifatturati, giocano nella economia nazionale una parte relativamente più piccola in confronto all’edilizia, alle prestazioni personali e ai servizi locali, che non sono oggetto di scambio internazionale; con il risultato che un aumento moderato nel costo reale dei prodotti primari e manifatturati, che sia conseguenza di un maggior grado di autarchia economica, può perdere di importanza quando lo si metta sulla bilancia contro vantaggi di un altro genere. L’autarchia economica nazionale, in breve, sebbene costi qualcosa, sta forse diventando un lusso che ci possiamo permettere se lo vogliamo.
Ci sono o no abbastanza buone ragioni, perché avvenga che lo si voglia?

 


 

III

 

Il capitalismo decadente, internazionale ma individualistico, nelle cui mani ci siamo trovati dopo la guerra, non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso, – e non mantiene quel che ha promesso. In breve, non ci piace, e stiamo anzi cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci domandiamo che cosa dobbiamo mettere al suo posto, siamo estremamente perplessi.

Diventa più chiaro ogni anno che il mondo si sta imbarcando in una quantità di differenti esperimenti politico-economici, e che diversi tipi di esperimento fanno appello ai diversi temperamenti nazionali e alle diverse situazioni storiche. L’internazionalismo economico dei liberisti dell’ottocento supponeva che il mondo intero fosse, o stesse per essere, organizzato sulle basi del capitalismo privato in regime di concorrenza e della libertà dei contratti privati protetti inviolabilmente dalle sanzioni della legge, -naturalmente attraverso fasi di diversa complessità e di diverso sviluppo, ma conformi a un tipo unico, che sarebbe stato scopo ultimo perfezionare e non certo distruggere. Il protezionismo dell’ottocento era sì una macchia sulla perfezione di questo schema conforme al buon senso, ma non modificava l’opinione generale sulle caratteristiche fondamentali della società economica.
Ma oggi un paese dopo l’altro abbandona questi presupposti. La Russia è ancora sola nel suo esperimento particolare, ma non è più sola nel suo abbandono dei vecchi presupposti. L’Italia, l’Irlanda, la Germania hanno posto gli occhi, o li stanno ponendo, su nuove forme di economia politica. Molti altri paesi dopo questi andranno in cerca, uno per uno, di nuove divinità economiche. Persino paesi come l’Inghilterra e gli Stati Uniti, che ancora si uniformano al vecchio modello, cercano, sotto la superficie, un nuovo ordine economico. Non sappiamo quale sarà il risultato. Noi, tutti noi, m’immagino, siamo sul punto di commettere molti errori. Nessuno può dire quale dei nuovi sistemi risulterà il migliore.
Ma il punto che interessa questa mia indagine è questo. Ognuno di noi ha una sua idea personale. Poiché non crediamo più di essere già salvi, ognuno di noi vorrebbe fare un tentativo per conto suo per guadagnarsi la sua salvezza personale. Noi non desideriamo quindi essere in balia di forze mondiali che producano, o cerchino di produrre, un qualche equilibrio uniforme in armonia con i principi ideali, se si possono dir tali, del capitalismo del laissez-faire. Ci sono ancora coloro che restano attaccati alle vecchie idee, ma in nessun paese del mondo costoro possono essere considerati una forza importante. Per il momento almeno, e finché dura l’attuale fase di transizione e di esperimento, noi vogliamo essere i padroni di noi stessi ed essere liberi, quanto più è possibile, dalle interferenze del mondo esterno.
Così, da questo punto di vista, la politica di una maggiore autarchia nazionale va considerata non come un ideale in sé stesso, ma come diretta alla creazione di un ambiente nel quale altri ideali possano essere perseguiti in maniera sicura e conveniente.

Permettete che vi dia un esempio, il più disadorno ch’io possa immaginare ma scelto perché è in relazione con certe idee di cui recentemente io stesso mi sono molto occupato. Per quel che riguarda i particolari dell’azione economica, a differenza dei controlli centrali, io sono favorevole a lasciarli quanto più è possibile al giudizio, all’iniziativa e allo spirito d’impresa privati. Ma mi sono dovuto convincere che la conservazione della struttura dell’impresa privata è incompatibile con quel grado di benessere materiale a cui ci dà diritto il nostro progresso tecnico, a meno che il saggio dell’interesse non cada ad un livello molto più basso di quello a cui lo porterebbero le forze naturali operanti secondo i vecchi schemi. Anzi, quella trasformazione della società che io mi prospetto più volentieri, può darsi richieda una riduzione del saggio d’interesse sino quasi a zero entro i prossimi trent’anni. Ma è estremamente improbabile che questo succeda in un sistema in cui il saggio dell’interesse, sotto l’azione di forze finanziarie normali, si adegua su un livello uniforme, tenuto conto del rischio e simili, nel mondo intero. Così, per un complesso di ragioni, che non posso analizzare in questo scritto, l’internazionalismo economici che comprende tanto il libero movimento dei capitali e dei fondi disponibili, quanto quello delle merci, può condannare il mio paese, per una intera generazione, a un grado di prosperità materiale molto inferiore a quello che potrebbe esser raggiunto con un altro sistema.

Ma questo è semplicemente un esempio. La mia affermazione centrale è che, per l’intera prossima generazione, non c’è nessuna prospettiva di uniformità nel sistema economico mondiale, di un’uniformità quale esisteva, grosso modo, durante il sec. XIX; che tutti noi dobbiamo essere il più liberi possibile da interferenze con mutamenti economici che si verifichino altrove, per poter fare i nostri esperimenti preferiti, in vista della ideale repubblica sociale del futuro; e che un deciso movimento per una maggiore autarchia nazionale ed un maggiore isolamento economico, se potrà compiersi ad un costo economico non eccessivo, renderà il nostro compito più facile.

 


 

IV

 

C’è un’altra spiegazione, io credo, di questo nuovo orientamento delle nostre menti. Il secolo XIX aveva esagerato sino alla stravaganza quel criterio che si può chiamare brevemente dei risultati finanziari, quale segno della opportunità di una azione qualsiasi, di iniziativa privata o collettiva. Tutta la condotta della vita era stata ridotta a una specie di parodia dell’incubo di un contabile. Invece di usare le loro moltiplicate riserve materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, gli uomini dell’ottocento costruirono dei sobborghi di catapecchie; ed erano d’opinione che fosse giusto ed opportuno di costruire delle catapecchie perché le catapecchie, alla prova dell’iniziativa privata, «rendevano», mentre la città delle meraviglie, pensavano, sarebbe stata una folle stravaganza che, per esprimerci nell’idioma imbecille della moda finanziaria, avrebbe «ipotecato il futuro», sebbene non si riesca a vedere, a meno che non si abbia la mente obnubilata da false analogie tratte da una inapplicabile contabilità, come la costruzione oggi di opere grandiose e magnifiche possa impoverire il futuro.

Ancor oggi io spendo il mio tempo, – in parte vanamente, ma in parte anche, lo devo ammettere, con qualche successo, a convincere i miei compatrioti che la nazione nel suo insieme sarebbe senza dubbio più ricca se gli uomini e le macchine disoccupate fossero adoperate per costruire le case di cui si ha tanto bisogno, che non se essi sono mantenuti nell’ozio. Ma le menti di questa generazione sono così offuscate da calcoli sofisticati, che esse diffidano di conclusioni che dovrebbero essere ovvie, e questo ancora per la cieca fiducia che hanno in un sistema di contabilità finanziaria che mette in dubbio se un’operazione del genere «renderebbe». Noi dobbiamo restare poveri perché essere ricchi non « rende ». Noi dobbiamo vivere in tuguri, non perché non possiamo costruire dei palazzi, ma perché non ce li possiamo «permettere».

La stessa norma, tratta da un calcolo finanziario suicida, regola ogni passo della vita. Noi distruggiamo le bellezze della campagna perché gli splendori della natura, accessibili a tutti, non hanno valore economico. Noi siamo capaci di chiudere la porta in faccia al sole e alle stelle, perché non pagano dividendo. Londra è una delle città più ricche che ricordi la storia della civiltà, ma non si può «permettere» i massimi livelli di civiltà di cui sono capaci i suoi cittadini, perché non «rendono».
Se io oggi avessi il potere, mi metterei decisamente a dotare le nostre capitali di tutte le raffinatezze dell’arte e della civiltà, ognuna della più alta e perfetta qualità, di cui fossero individualmente capaci i cittadini, nella persuasione che potrei permettermi tutto quello che potessi creare, – e nella fiducia che il denaro così speso non solo sarebbe preferibile ad ogni sussidio di disoccupazione, ma renderebbe i sussidi di disoccupazione superflui. Con quello che abbiamo speso in Inghilterra, dalla guerra in poi, in sussidi di disoccupazione, avremmo potuto fare delle nostre città, i maggiori monumenti dell’opera dell’uomo.
O anche, per fare un altro esempio, sino a poco tempo fa, abbiamo considerato come un dovere morale di rovinare i lavoratori della terra e di distruggere le secolari tradizioni collegate all’agricoltura, solo che potessimo ottenere un filo di pane mezzo centesimo più a buon mercato. Non c’era più niente che non fosse nostro dovere di sacrificare a quest’idolo, Moloch e Mammone insieme; perché noi fiduciosamente credevamo che l’adorazione di questi mostri avrebbe vinto i mali della povertà e condotto la prossima generazione, sicuramente e comodamente, in sella agli interessi intrecciati, verso la pace economica.

Oggi noi soffriamo una delusione, non perché siamo più poveri di quello che eravamo, – al contrario, anche oggi, in Inghilterra almeno, noi godiamo di un tenore di vita più elevato che in ogni altra epoca, – ma perché ci pare che altri valori siano stati sacrificati e perché ci sembra che siano stati sacrificati senza necessità. Infatti, il nostro sistema economico non ci permette davvero  di sfruttare al massimo le possibilità di ricchezza economica offerteci dai progressi della tecnica, resta anzi ben lontano da questo ideale, e ci fa sentire come se avessimo potuto benissimo usare tutto il margine disponibile in tanti altri modi più soddisfacenti.
Ma, una volta che ci siamo permessi di disubbidire al criterio dell’utile contabile, noi abbiamo cominciato a cambiare la nostra civiltà. E noi dobbiamo farlo molto prudentemente, cautamente e coscientemente. Perché c’è un ampio campo dell’attività umana in cui sarà bene che conserviamo i consueti criteri pecuniari. È lo Stato, piuttosto che l’individuo, che bisogna cambi i suoi criteri. È la concezione del Ministro delle Finanze, come del Presidente di una specie di società anonima, che deve essere respinta. Ora, se le funzioni e gli scopi dello Stato devono essere di tanto allargati, le decisioni riguardo a ciò che, parlando grossolanamente, dovrà essere prodotto nel paese e ciò che dovrà essere ottenuto in cambio dall’estero, dovranno essere tra le più importanti della politica.

 


 

V

 

Da queste riflessioni sui giusti scopi dello Stato ritorniamo al mondo della politica contemporanea. Dopo aver cercato di capire e di rendere pienamente giustizia alle idee che sono alla base del bisogno, sentito oggi da tanti paesi, di una maggiore autarchia nazionale, dobbiamo ora considerare con cura se in pratica non stiamo rifiutando troppo facilmente molto del buono che ha compiuto il secolo XIX. Pare, a mio giudizio, che in tutti quei paesi, nei quali i fautori dell’autarchia nazionale hanno conquistato il potere, senza eccezione, si stiano facendo molte sciocchezze. Mussolini forse sta sviluppando un po’ di saggezza. La Russia invece presenta probabilmente il peggiore esempio che il mondo abbia mai visto di incompetenza amministrativa e del sacrificio di quasi tutto ciò che fa la vita degna di esser vissuta, Quanto alla Germania, è in balia di irresponsabili senza freni, per quanto è troppo presto per giudicarla. Lo stato libero irlandese, una unità di gran lunga troppo piccola per poter godere di un alto grado di autarchia nazionale, se non pagandola a un prezzo schiacciante, sta discutendo dei piani che, se fossero eseguiti, potrebbero portarlo alla rovina.

Al tempo stesso, quei paesi che mantengono o che stanno adottando un deciso protezionismo del vecchio tipo, – abbellito con l’aggiunta di alcuni contingentamenti secondo la nuova moda, – stanno facendo molte cose che non possono essere difese razionalmente. Pertanto, se la Conferenza Economica mondiale riuscirà a stabilire una mutua riduzione di tariffe doganali e a preparare la via per accordi regionali, non le mancherà il nostro sincero plauso. Perché non si deve credere che io voglia avallare tutto quello che nel mondo politico odierno si va facendo nel nome del nazionalismo economico. Ben lungi da questo.
Piuttosto, io cerco di mettere in luce che il mondo verso il quale noi ci stiamo muovendo con difficoltà è completamente differente dall’ideale internazionalismo economico dei nostri padri, e che la politica contemporanea non deve essere giudicata in base alle massime di quella fede di allora.

Nel nazionalismo economico e nelle correnti verso l’autarchia nazionale, io vedo tre gravi pericoli che ne minacciano il successo.

Il primo è la Stupidità, – la stupidità del dottrinario. Non c’è niente di strano a scoprirla in movimenti economici come questi, che sono passati quasi improvvisamente dalla fase delle fantasticherie notturne al campo dell’azione. A prima vista, noi non distinguiamo tra i colori retorici con i quali abbiamo ottenuto il consenso di un popolo e la arida sostanza di verità del nostro messaggio. Non vi è nessuna ipocrisia nella transizione. Le parole devono essere un po’ violente, – poiché con esse i pensieri assalgono quelli che non pensano. Ma quando le sedi del potere e dell’autorità sono state conquistate, non ci dovrebbero esser più licenze poetiche.
Al contrario, noi dobbiamo calcolare i costi sino all’ultimo soldo, che la nostra retorica ha disprezzato. Una società sperimentale deve assolutamente essere molto più efficiente di una costituita da tempo, se vuole sopravvivere senza pericoli. Tutto il suo margine economico le sarà necessario per i suoi propri fini, né essa può permettersi di regalare niente alla stupidità o alla follia dottrinaria.

Il secondo pericolo – un pericolo peggiore che la stupidità, è la Fretta. Vale la pena di citare l’aforisma di Paul Valery: «I conflitti politici deformano e distruggono nelle persone il senso della distinzione tra cose importanti e cose urgenti». La trasformazione economica di una società è una faccenda da compiersi lentamente. Quello che io sono andato discutendo sin qui non è un’improvvisa rivoluzione, ma la direzione di un andamento secolare. Nella Russia d’oggi abbiamo un terribile esempio dei mali causati da una folle e inutile fretta. I sacrifici e le perdite della transizione saranno molto maggiori se si forza il passo. Questo è vero, soprattutto, di una trasformazione verso una maggiore autarchia nazionale e una economia interna regolata. È infatti nella natura dei processi economici di essere radicati nel tempo. Una transizione rapida implicherebbe una così grande e mera distruzione di ricchezza, che il nuovo stato di cose sarebbe, subito, molto peggiore del vecchio; e il grande esperimento ne resterebbe discreditato.

Il terzo rischio, che è il peggiore dei tre, è l’Intolleranza e il soffocamento della critica. Ordinariamente le nuove correnti sono giunte al potere attraverso una fase di violenza o di quasi-violenza. Esse non hanno convinto gli oppositori; li hanno domati. Il metodo moderno è quello di fare affidamento sulla propaganda e controllare gli organi dell’opinione pubblica; si crede che sia cosa molto furba e molto utile fossilizzare il pensiero ed adoperare tutte le forze dell’autorità per paralizzare il gioco di interazione di una mente sull’altra. Per quelli che hanno trovato necessario adoperare qualsiasi metodo pur di conquistare il potere, la tentazione è forte di continuare ad adoperare per il compito costruttivo quegli stessi pericolosi strumenti che sono serviti preliminarmente a forzare la porta d’ingresso.

La Russia ancora ci fornisce un esempio dei rovinosi errori che commette un regime che si ritenga esentato dalla critica. La spiegazione dell’incompetenza con cui sono sempre state condotte le guerre, da tutti e due i belligeranti, si trova forse nella relativa esenzione dalla critica che la gerarchia militare procura ai supremi comandi. Io non ho proprio nessuna esagerata ammirazione degli uomini politici, ma, allevati come essi sono nell’atmosfera stessa della critica, di quanto non sono essi superiori ai soldati! Le rivoluzioni riescono solo perché sono guidate da uomini politici contro soldati. Per quanto questo possa suonare paradossale – chi mai ha sentito parlare di una rivoluzione vittoriosa guidata da soldati contro uomini politici? Ma noi tutti odiamo la critica. Solo un principio profondamente radicato ci persuaderà ad esporci ad essa volontariamente.
Eppure i nuovi sistemi economici, verso i quali noi stiamo procedendo tra gli errori, sono, nella loro natura essenziale, esperimenti. Noi non abbiamo dinanzi alle nostre menti un’idea chiara e predeterminata di ciò che esattamente vogliamo. Lo scopriremo via via che procediamo, e dovremo dar forma ai nostri materiali in base alle nostre esperienze. Ora, in questo processo, una critica audace, libera e spietata è una condizione indispensabile per il successo ultimo. Ci occorre la collaborazione di tutte le intelligenze della nostra epoca. Stalin ha eliminato tutte le menti indipendenti, critiche, anche quelle che nella visione generale simpatizzavano con lui. Egli ha creato un ambiente in cui i processi mentali sono atrofizzati. I processi mentali flessibili sono diventati di legno. Lo strepito moltiplicato degli altoparlanti sostituisce le dolci inflessioni della voce umana. Il belato della propaganda annoia sino allo stordimento anche gli uccelli e le bestie dei campi. Sia Stalin un esempio terrificante per tutti quelli che vogliono fare degli esperimenti! Se non altri, io per lo meno tornerò certo in fretta agli ideali del mio vecchio secolo XIX, in cui il gioco d’influenze di una mente sull’altra creò quell’eredità che noi oggi, arricchiti da quello che i nostri padri guadagnarono per noi, stiamo cercando di deviare ai nostri propri fini.

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