Mar 29

Uccidere la Repubblica italiana è lecito? La Cassazione risponderà a questa domanda il 9 aprile.

Nel 2014, spinto dalla ferma volontà di non rimanere a guardare mentre il mio Paese muore, decisi di tentare la via giudiziaria per difendere la sovranità del popolo italiano sul proprio territorio.

Una forma di lotta, parallela ad ogni altra azione, certamente difficile ed estremamente costosa, ma che mi sentivo di dover portare avanti. Dieci anni dopo ho raggiunto quantomeno l’obiettivo di arrivare innanzi alla Corte di Cassazione che il 9 aprile dovrà decidere se la ratifica dei trattati UE, e le gravi cessioni di sovranità che comportano, siano o meno state legittime.

Vi pubblico quindi la memoria conclusiva che racchiude la sintesi anche del mio pensiero più profondo su questi temi decisivi per noi e il nostro futuro. Vi ricordo che chi volesse dare un piccolo aiuto economico in questa vicenda può scrivermi alla mail mrc.mori@libero.it 

Ringrazio pubblicamente anche il mio amico e Collega Giuseppe Sottile che insieme a me si sta spendendo in questa causa importantissima.

Anche dovesse andare male anche in Cassazione la mia idea è quella di procedere nuovamente, fatti i debiti aggiustamenti della domanda in base alle motivazioni che leggeremo. Rimanete aggiornati su ogni sviluppo iscrivendovi al mio canale telegram cliccando QUI

Date massima diffusione a questo post.

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ECC.MA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

MEMORIA EX ART. 380 bis C.P.C.

Nell’interesse della Dott.ssa ***********

Ricorrente Avv. Marco Mori – Giuseppe Sottile

CONTRO

La Presidenza del Consiglio dei Ministri in persona del Presidente protempore, il Ministero dell’Interno in persona del Ministro protempore, il Ministero degli Affari Esteri in persona del Ministro protempore

Resistenti

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Questa Ecc..ma Suprema Corte si occupò anni fa, precisamente con la sentenza n. 8878/2014 (sez. I), di una vertenza in tutto e per tutto assimilabile alla presente.

In allora il tema al centro dell’esame era la violazione del diritto di voto che si sarebbe verificata in forza della legge elettorale vigente, la Legge n. 270 del 21 dicembre 2005 (il cd. porcellum).

La Corte accertò in particolare, dopo il necessario passaggio in Corte Costituzionale, che i ricorrenti non avevano potuto esercitare il loro diritto di voto secondo le modalità previste in Costituzione (voto eguale, diretto, libero e personale) in virtù della citata legge elettorale.

Venne riconosciuta pertanto espressamente la possibilità di agire in giudizio da parte di un singolo cittadino per la mera rimozione di una norma di legge che finiva per violare un diritto fondamentale costituzionalmente garantito, quale appunto il voto stesso.

Con la presente causa, che nasce concettualmente proprio in virtù di tale fondamentale precedente per la nostra democrazia, si è inteso agire secondo la stessa ratio.

Si però andati a monte del diritto di voto, poiché il voto è, nella sostanza, il modo con cui si esercita la sovranità popolare, diritto plurisoggettivo appartenente a ciascun cittadino avente diritto al voto e dunque anche all’odierna ricorrente.

Ai sensi dell’art. 1 Cost. la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La forma di esercizio del diritto plurisoggettivo di sovranità è appunto il voto.

Ma oggi, anche se il voto si esercitasse secondo i dettami costituzionali, lo stesso risulterebbe completamente inutile in quanto la sovranità in alcune specifiche materie è stata illecitamente ceduta in favore dell’Unione Europea, spogliando il Parlamento dei suoi poteri. Anzi vietando al Parlamento italiano di legiferare nelle materie espressamente indicate nei trattati.

Come fu fatto per il cd. porcellum sarebbe dunque necessario che le leggi di ratifica dei trattati UE siano portate all’attenzione della Corte Costituzione per evidenziarne l’incompatibilità con il combinato degli artt. 1, 10, 11, 47 e 139 Cost.

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SUL PRIMO MOTIVO (pagg. 10-24 del ricorso).

Contrariamente alle tesi della ricorrente la Corte d’Appello di Genova ha affermato che è proprio l’art. 11 Cost. a consentire l’ingresso del diritto internazionale nel nostro ordinamento e così a legittimare la ratifica di trattati che pur costituiscono palesi cessioni di sovranità.

Tale affermazione è completamente destituita di fondamento.

In merito alla versione consolidata del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) le norme di riferimento che qui interessano, in quanto non potevano essere ratificate, sono gli art. 2 e 3 oltre che, per quanto concerne la sovranità economica, il protocollo n. 12 TFUE ed il trattato fiscal compact con cui sono stati imposti ulteriori vincoli di bilancio in materia di debito e deficit, ovviamente imposti in conseguenza dell’attribuzione esclusiva all’UE delle politiche monetarie.

L’art. 3 TFUE specifica le materie in cui il popolo italiano non ha più alcuna voce in capitolo, nelle quali l’unione ha competenza “esclusiva” tra di esse spicca per importanza appunto la lettera c) dell’articolo in parola che sottrae alla giurisdizione nazionale “la politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro”.

Il precedente art. 2 TFUE afferma come già detto: “Quando i trattati attribuiscono all’Unione una competenza esclusiva in un determinato settore, solo l’Unione può legiferare ed adottare atti giuridicamente vincolanti. Gli Stati membri possono farlo autonomamente solo se autorizzati dall’Unione o per dare attuazione agli atti dell’Unione”.

Il Parlamento italiano non può prendere decisioni in materia di politiche monetarie, la creazione e l’emissione sovrana di moneta non sono più prerogative nazionali e lo stesso dicasi per i vincoli di bilancio collegati all’euro e disciplinati con il citato protocollo n. 12 TFUE ed il trattato cd. Fiscal Compact.

Su queste materie dunque votare è completamente inutile in quanto, come detto, il nostro Parlamento non ha più alcuna voce in capitolo.

Si va appunto a monte dell’esercizio del diritto di voto. Se manca la sovranità votare non serve chiaramente a nulla.

La domanda che si pone all’attenzione di questa Suprema Corte di Cassazione è quindi se tale assetto possa dirsi compatibile con l’art. 11 Cost.

Ovviamente non si vede come si possa arrivare alla risposta positiva data dalla Corte d’Appello di Genova.

Anzi a tale assetto non è neppure compatibile anche con l’art. 47 Cost. che prevede che la Repubblica disciplini, coordini e controlli il credito.

Evidente che l’assenza di competenza sulle politiche monetarie, su cui il Parlamento ha addirittura il predetto divieto assoluto di legiferare, esclude che la Repubblica possa disciplinare, coordinare o controllare alcunché.

La violazione dell’art. 47 Cost. è dunque clamorosa ed innegabile.

L’art. 130 TFUE addirittura si spinge fino a sancire la totale indipendenza della Banca Centrale disponendo che “nell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei compiti (…) attribuiti dai trattati (..) né la Banca centrale europea né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai Governi degli stati membri né da qualsiasi altro organismo”.

La radicale incostituzionalità di tale assetto, che codifica la cd. dottrina dell’indipendenza della banca centrale, appare palese visto che così si sottrae alla democrazia ogni attribuzione in termini di politica monetaria ed economica.

Per smentire che l’art. 11 Cost. autorizzi acriticamente la ratifica di trattati internazionali basta rammentare la giurisprudenza più recente della Corte Costituzionale.

Con sentenza n. 238/14 la Corte ha affermato che: Non v’è dubbio, infatti, ed è stato confermato a più riprese da questa Corte, che i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un «limite all’ingresso […] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione» (sentenze n. 48 del 1979 e n. 73 del 2001) ed operino quali “controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n.170 del 1984, n. 232 del 1989, n. 168 del 1991, n. 284 del 2007), oltre che come limiti all’ingresso delle norme di esecuzione dei Patti Lateranensi e del Concordato (sentenze n. 18 del 1982, n. 32, n. 31 e n. 30 del 1971). Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (artt. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n. 1146 del 1988)”.

Ed ancora, confermando anche il concetto di limitazione fatto proprio dallo scrivente, la Corte afferma:Anche in una prospettiva di realizzazione dell’obiettivo del mantenimento di buoni rapporti internazionali, ispirati ai principi di pace e giustizia, in vista dei quali l’Italia consente a limitazioni di sovranità (art. 11 Cost.), il limite che segna l’apertura dell’ordinamento italiano all’ordinamento internazionale e sovranazionale (artt. 10 ed 11 Cost.) è costituito, come questa Corte ha ripetutamente affermato (con riguardo all’art. 11 Cost.: sentenze n. 284 del 2007, n. 168 del 1991, n. 232 del 1989, n. 170 del 1984, n. 183 del 1973; con riguardo all’art. 10, primo comma, Cost.: sentenze n. 73 del 2001, n. 15 del 1996 e n. 48 del 1979; anche sentenza n. 349 del 2007), dal rispetto dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili dell’uomo, elementi identificativi dell’ordinamento costituzionale.

Dunque in realtà è l’art. 10 Cost. che disciplina l’ingresso nell’ordinamento interno delle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, mentre l’art. 11 Cost. casomai, è uno dei paletti esistenti all’ingresso delle stesse, in ossequio al principio dell’appartenenza della sovranità popolare di cui all’art. 1 Cost.

A questo punto prima di esaminare l’esatta portata del contenuto dell’art. 11 Cost. occorre preliminarmente ricordale quali siano gli elementi fondanti, e dunque assolutamente irrinunciabili, di uno Stato.

Esso, per esistere, deve avere contemporaneamente un popolo, un territorio e il potere d’imperio di quel popolo sul suo territorio, appunto la sovranità.

In una democrazia come la nostra tale potere d’imperio è stato attribuito al popolo, che ovviamente lo esercita nelle forme (democrazia rappresentativa) e nei limiti della Costituzione. Il voto dunque è lo strumento ultimo con cui si esercita il diritto plurisoggettivo alla sovranità.

Il potere d’imperio, ergo la sovranità, del popolo italiano sul proprio territorio non può essere ceduto e anche la limitazione di esso è soggetta a limiti ben precisi, appunto quelli del citato art. 11 Cost., che anche la suindicata giurisprudenza ha specificato con chiarezza. Parliamo di ciò che viene conosciuto con il termine di “controlimiti” all’ingresso del diritto internazionale nel nostro ordinamento.

Dunque i principi fondamentali sono un paletto concreto ed invalicabile, proprio in virtù della definitività della forma Repubblicana dello Stato, all’ingresso del diritto internazionale nel nostro ordinamento.

L’appartenenza della sovranità al popolo, principio “fondamentalissimo”, dunque è la regola generale mentre la sua limitazione è l’eccezione che va adeguatamente circoscritta.

E’ tale l’attenzione dell’ordinamento circa la difesa della sovranità che, sia la sua cessione, che la limitazione oltre i “controlimiti” costituzionali, sono addirittura comportamenti costituenti pacificamente reato ex artt. 243 c.p.

Appare infatti normale, se non addirittura scontato, che uno Stato disciplini, quale gravissimo delitto, ogni azione diretta a menomarne la personalità giuridica, ovvero ogni azione diretta a menomare la sua stessa esistenza come entità sovrana ed indipendente.

Si può osservare che fin dalla piana lettura della relazione preparatoria al progetto di Costituzione dell’On. Mauccio Ruini la ratio dell’attuale art. 11 Cost. è ben inquadrata, parliamo dunque di interpretazione autentica della norma.

Testualmente: “l’Italia è uno Stato indipendente e libero, l’Italia non consente, in linea di principio altre limitazioni della sovranità, ma si dichiara pronta, in condizioni di reciprocità e di uguaglianza, a quelle necessarie per organizzare la solidarietà e la giusta pace tra i popoli”.

La sovranità interna del Paese è incondizionata ed incondizionabile, le limitazioni sono possibili solo a fini di pace ed in condizione di reciprocità. Tutto questo era concepito per l’ONU e non per mettere fine alla Repubblica Italiana aderendo ad un’Europa unita o federale.

Infatti cedere sovranità per costituire un nuovo Stato significa sic et simpliciter mettere fine alla Repubblica Italiana, ma la definitività della sua forma, sancita ex art. 139 Cost., lo impedisce.

Addirittura in abbondanza si rammenta che l’On. Lussu il 24 gennaio 1947 propose uno specifico emendamento all’art. 11 Cost. proprio per aprire almeno all’Europa federale, l’emendamento fu votato e respinto.

L’On. Calamandrei in persona, circa la definitività della forma Repubblicana, ricordò sempre durante le sedute della Costituente che l’art. 139 Cost. era un passo perentorio, ammonendo tutti, forse anche perché non perfettamente d’accordo, che approvata tale norma nulla avrebbe più potuto essere modificato nei principi fondamentali della Carta, neppure se la maggioranza del Paese lo avesse voluto.

Che piaccia o meno l’Italia, intesa come Stato sovrano ovviamente, è costituzionalmente eterna, tentare di cancellarla è sic et simpliciter un atto eversivo.

Alla luce del dato testuale dell’art. 11 Cost. e della sua interpretazione autentica dunque la sovranità non può essere ceduta e gli stessi limiti devono riguardare solo un preciso scopo, la pace.

Non si deve e non si può incorrere nell’errore di considerare i termini di cessione e limitazione della sovranità come due sinonimi.

Prendendo qualsiasi dizionario si nota immediatamente che limitare significa contenersi e nel caso di uno Stato dunque contenere un proprio potere d’imperio, omettere il suo pieno esercizio che resta però sotto il totale controllo del proprio Parlamento.

Cedere invece assume un significato quasi opposto, quello di chinarsi, arrendersi, prostrarsi o appunto se si parla di Stato trasferire a titolo definitivo un proprio potere d’imperio.

Un esempio banale di uso comune di questi termini?

Se stipulo un trattato diretto a ridurre le emissioni inquinanti limito la mia sovranità che resta contenuta nel suo esercizio ma perfettamente conservata per un motivo, tra l’altro, che certamente attiene alla pace e alla giustizia, posto che gli effetti dell’inquinamento travalicano i confini nazionali.

Se invece sottoscrivessi un trattato in cui, sempre al fine di ridurre le emissioni inquinanti, cedessi la sovranità industriale del Paese ad un terzo soggetto o ad un’autorità indipendente (per parafrasare quanto fatto in tema monetario ed economico), allora si sarebbe compiuta una cessione dei sovranità e dunque un atto illecito.

L’art. 3 TFUE disciplina come detto espressamente le materie in cui la sovranità è stata ceduta con competenza esclusiva in capo a Bruxelles.

Tale azione costituisce una illecita compressione del diritto plurisoggettivo alla sovranità dell’esponente, che si esercita per tramite il diritto di voto.

Da qui discende l’interesse giuridico in capo ad ogni cittadino di agire in giudizio anche per la sola eliminazione della situazione lesiva in essere, ottenibile attraverso la declaratoria di incostituzionalità delle leggi di ratifica dei trattati internazionali che hanno soppresso la sovranità nazionale, esattamente come accadde per il cd. “porcellum”.

Il ragionamento fatto per la sovranità in tema di politiche monetarie vale parimenti per la connessa sovranità economica ceduta in forza del protocollo 12 allegato al TFUE e in forza del successivo trattato cd. “fiscal compact” (legge n. 114/2012) che ha poi determinato, in sua esecuzione, l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione (L. Cost. n. 1/2012). La connessione è legata al fatto che i vincoli citati valgono proprio per gli Stati che hanno aderito all’euro e che non hanno dunque più la facoltà di prendere in materia decisioni sovrane ed autonome non potendo appunto legiferare in materia ex artt 2 e 3 TFUE.

La governance economica UE è disciplinata dal protocollo n. 12 allegato al Tratatto di Maastricht e poi riconfermata, immutata, con il Tratatto di Lisbona e parte integrante del TFUE.

Il protocollo specifica il contenuto dell’art. 126 TFUE ex art. 104 TCE che testualmente dispone:Gli stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi. La Commissione sorveglia l’evoluzione della situazione di bilancio e dell’entità del debito pubblico negli Stati membri, al fine di individuare errori rilevanti. In particolare esamina la conformità alla disciplina di bilancio sulla base dei due criteri seguenti: a) se il rapporto tra disavanzo pubblico, previsto o effettivo, e il prodotto interno lordo superi un valore di riferimento, a meno che: -il rapporto non sia diminuito in modo sostanziale e continuo e abbia raggiunto un livello che si avvicina al valore di riferimento, -oppure in alternativa, il superamento del valore di riferimento sia solo eccezionale e temporaneo e il rapporto resti vicino al valore di riferimento; b) se il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo superi un valore di riferimento, a meno che detto rapporto non si stia riducendo in misura sufficiente e non si avvicini al valore di riferimento con ritmo adeguato. I valori di riferimento sono specificati nel protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi allegato ai trattati. 3. Se uno Stato membro non rispetta i requisiti previsti da uno o entrambi i criteri menzionati, la Commissione prepara una relazione. La relazione della Commissione tiene conto anche dell’eventuale differenza tra il disavanzo pubblico e la spesa pubblica per gli investimenti e tiene conto di tutti gli altri fattori significativi, compresa la posizione economica e di bilancio a medio termine dello Stato membro. La Commissione può inoltre preparare una relazione se ritiene che in un determinato Stato membro, malgrado i criteri siano rispettati, sussista il rischio di un disavanzo eccessivo. 4. Il comitato economico e finanziario formula un parere in merito alla relazione della Commissione. 5. La Commissione, se ritiene che in uno Stato membro esista o possa determinarsi in futuro un disavanzo eccessivo, trasmette un parere allo Stato membro interessato e ne informa il Consiglio. 6. Il Consiglio, su proposta della Commissione e considerate le osservazioni che lo Stato membro interessato ritenga di formulare, decide, dopo una valutazione globale, se esiste un disavanzo eccessivo. 7. Se, ai sensi del paragrafo 6, decide che esiste un disavanzo eccessivo, il Consiglio adotta senza indebito ritardo, su raccomandazione della Commissione, le raccomandazioni allo Stato membro in questione al fine di far cessare tale situazione entro un determinato periodo. Fatto salvo il disposto del paragrafo 8, dette raccomandazioni non sono rese pubbliche. 8. Il Consiglio, qualora determini che nel periodo prestabilito non sia stato dato seguito effettivo alle sue raccomandazioni, può rendere pubbliche dette raccomandazioni. C 83/100 Gazzetta ufficiale dell IT ’Unione europea 30.3.2010 100 Trattati consolidati 9. Qualora uno Stato membro persista nel disattendere le raccomandazioni del Consiglio, quest’ultimo può decidere di intimare allo Stato membro di prendere, entro un termine stabilito, le misure volte alla riduzione del disavanzo che il Consiglio ritiene necessaria per correggere la situazione. In tal caso il Consiglio può chiedere allo Stato membro in questione di presentare relazioni secondo un calendario preciso, al fine di esaminare gli sforzi compiuti da detto Stato membro per rimediare alla situazione. 10. I diritti di esperire le azioni di cui agli articoli 258 e 259 non possono essere esercitati nel quadro dei paragrafi da 1 a 9 del presente articolo. 11. Fintantoché uno Stato membro non ottempera ad una decisione presa in conformità del paragrafo 9, il Consiglio può decidere di applicare o, a seconda dei casi, di rafforzare una o più delle seguenti misure: — chiedere che lo Stato membro interessato pubblichi informazioni supplementari, che saranno specificate dal Consiglio, prima dell’emissione di obbligazioni o altri titoli, — invitare la Banca europea per gli investimenti a riconsiderare la sua politica di prestiti verso lo Stato membro in questione, — richiedere che lo Stato membro in questione costituisca un deposito infruttifero di importo adeguato presso l’Unione, fino a quando, a parere del Consiglio, il disavanzo eccessivo non sia stato corretto, — infliggere ammende di entità adeguata. Il presidente del Consiglio informa il Parlamento europeo delle decisioni adottate. 12. Il Consiglio abroga alcune o tutte le decisioni o raccomandazioni di cui ai paragrafi da 6 a 9 e 11 nella misura in cui ritiene che il disavanzo eccessivo nello Stato membro in questione sia stato corretto. Se precedentemente aveva reso pubbliche le sue raccomandazioni, il Consiglio dichiara pubblicamente, non appena sia stata abrogata la decisione di cui al paragrafo 8, che non esiste più un disavanzo eccessivo nello Stato membro in questione. 13. Nell’adottare le decisioni o raccomandazioni di cui ai paragrafi 8, 9, 11 e 12, il Consiglio delibera su raccomandazione della Commissione. Nell’adottare le misure di cui ai paragrafi da 6 a 9, 11 e 12, il Consiglio delibera senza tener conto del voto del membro del Consiglio che rappresenta lo Stato membro in questione. Per maggioranza qualificata degli altri membri del Consiglio s’intende quella definita conformemente all’articolo 238, paragrafo 3, lettera a). 14. Ulteriori disposizioni concernenti l’attuazione della procedura descritta nel presente articolo sono precisate nel protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi allegato ai trattati. 30.3.2010 Gazzetta ufficiale dell IT ’Unione europea C 83/101 Versione consolidata del trattato sul funzionamento dell’Unione europea 101 Il Consiglio, deliberando all’unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo e della Banca centrale europea, adotta le opportune disposizioni che sostituiscono detto protocollo. Fatte salve le altre disposizioni del presente paragrafo, il Consiglio, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, precisa le modalità e le definizioni per l’applicazione delle disposizioni di detto protocollo”.

Trattasi di un evidente commissariamento permanente del Paese che qualora si discosti dai parametri imposti dall’UE subisce via via sanzioni più pesanti. Non esiste eccezione all’obbedienza per una nazione che ha ceduto sovranità, il voto non può modificare in alcun modo questi vincoli.

Al netto di ciò che si pensi sul deficit e debito, inutile spiegare in questa sede le basi della macroeconomia Keynesiana e l’assurdità (e incostituzionalità) delle opposte tesi neoliberiste la cui disamina ci porterebbe troppo fuori tema, e su ciò che si pensi dell’indispensabilità delle politiche di deficit per accrescere la ricchezza del settore privato, il fatto che il Parlamento italiano non abbia più sovranità economica è evidente.

Nel protocollo n. 12 intitolato “delle procedure di disavanzo eccesivo” sono appunto codificati i parametri di deficit da rispettare:

Articolo 1 – I valori di riferimento di cui all’articolo 126, paragrafo 2, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea sono: il 3% per il rapporto fra il disavanzo pubblico, previsto o effettivo, e il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato, — il 60% per il rapporto fra il debito pubblico e il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato”.

In materia la sovranità è stata radicalmente ceduta, addirittura il paese si è subordinato, come detto, “al vincolo esterno” che arriva al commissariamento con imposizioni di sanzioni in caso di mancata ottemperanza agli ordini della commissione.

Dunque lo Stato non può, neppure se il popolo lo volesse, emettere moneta e tantomeno potrebbe ricorrere ai mercati liberamente per finanziarsi anche se gli stessi fossero disponibili a farlo.

La situazione è poi peggiorata con il cd. fiscal compact e con l’inserimento del pareggio in bilancio in Costituzione con cui il “vincolo esterno” è diventato un “vincolo interno” all’ordinamento. Vincolo giuridicamente concepito proprio per tentare di difendersi da una causa come quella che ha posto in essere l’esponente ed in generale per rendere più complicato, anche politicamente, l’abbandono di euro ed Unione europea.

I limiti al deficit diventano con esso più stringenti ed i poteri sanzionatori delle autorità europee vengono incrementati.

L’art. 3 del Trattato è assolutamente eloquente: “1. Le parti contraenti applicano le regole enunciate nel presente paragrafo in aggiunta e fatti salvi i loro obblighi ai sensi del diritto dell’Unione europea:

a) la posizione di bilancio della pubblica amministrazione di una parte contraente è in pareggio o in avanzo;

b) la regola di cui alla lettera a) si considera rispettata se il saldo strutturale annuo della pubblica amministrazione è pari all’obiettivo di medio termine specifico per il paese, quale definito nel patto di stabilità e crescita rivisto, con il limite inferiore di un disavanzo strutturale dello 0,5% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato. Le parti contraenti assicurano la rapida convergenza verso il loro rispettivo obiettivo di medio termine. Il quadro temporale per tale convergenza sarà proposto dalla Commissione europea tenendo conto dei rischi specifici del paese sul piano della sostenibilità. I progressi verso l’obiettivo di medio termine e il rispetto di tale obiettivo sono valutati globalmente, facendo riferimento al saldo strutturale e analizzando la spesa al netto delle misure discrezionali in materia di entrate, in linea con il patto di stabilità e crescita rivisto;

c) le parti contraenti possono deviare temporaneamente dal loro rispettivo obiettivo di medio termine o dal percorso di avvicinamento a tale obiettivo solo in circostanze eccezionali, come definito al paragrafo 3, lettera b);

d) quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato è significativamente inferiore al 60% e i rischi sul piano della sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche sono bassi, il limite inferiore per l’obiettivo di medio termine di cui alla lettera b) può arrivare fino a un disavanzo strutturale massimo dell’1,0% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato;

e) qualora si constatino deviazioni significative dall’obiettivo di medio termine o dal percorso di avvicinamento a tale obiettivo, è attivato automaticamente un meccanismo di correzione. Tale meccanismo include l’obbligo della parte contraente interessata di attuare misure per correggere le deviazioni in un periodo di tempo definito”.

L’art. 5 Cost. conferma poi la fine della sovranità italiana in materia economica: “1. La parte contraente che sia soggetta a procedura per i disavanzi eccessivi ai sensi dei trattati su cui si fonda l’Unione europea predispone un programma di partenariato economico e di bilancio che comprenda una descrizione dettagliata delle riforme strutturali da definire e attuare per una correzione effettiva e duratura del suo disavanzo eccessivo (si noti che con questo Trattato tutti il disavanzo è eccessivo perché occorre la parità o l’attivo di bilancio n.d.s.). II contenuto e il formato di tali programmi sono definiti nel diritto dell’Unione europea”.

Ed ancora la norma chiaramente ci impone il “vincolo esterno” con tale sconcertante precisazione: La loro presentazione al Consiglio dell’Unione europea e alla Commissione europea per approvazione e il loro monitoraggio avranno luogo nel contesto delle procedure di sorveglianza attualmente previste dal patto di stabilità e crescita.

2. Spetterà al Consiglio dell’Unione europea e alla Commissione europea monitorare l’attuazione del programma di partenariato economico e di bilancio e dei piani di bilancio annuali ad esso conformi”.

Con buona pace della sovranità popolare…

Come si rammenterà si è poi parlato di un illecito penale che scaturirebbe dalla cessione compiuta della sovranità nazionale. Nel caso di specie si assume in particolare violato, in forza della ratifica delle leggi citate, l’art. 243 c.p.

L’art. 243 c.p. punisce: “Chiunque tiene intelligenze con lo straniero affinché uno Stato estero muova guerra o compia atti di ostilità contro lo Stato italiano, ovvero commette altri fatti diretti allo stesso scopo, è punito con la reclusione non inferiore a dieci anni. Se la guerra segue, si applica la pena di morte; se le ostilità si verificano, si applica l’ergastolo”.

Il verificarsi dell’evento bellico non è elemento necessariamente richiesto per la consumazione del reato in parola per il quale è sufficiente l’avvenuta intelligenza con lo straniero a tale fine o, per quanto qui interessa davvero, al fine di compiere anche altri atti altrimenti ostili alla nazione.

Dunque paliamo di atti diversi dalla guerra che comunque ledono la personalità giuridica dello Stato.

Ecco il collegamento quindi con la fattispecie in esame.

Tenere “intelligenze” significa semplicemente stringere un accordo con lo straniero, accordo che ai fini del reato in parola può anche essere assolutamente palese e non già occulto.

La stipula di un trattato internazionale è pacificamente un atto d’intelligenza con lo straniero la sua legittimità o meno quindi dipende dal contenuto dell’accordo.

La qualificazione giuridica apparentemente meno immediata è infatti quella che definisce appunto il concetto di “atto ostile diverso dalla guerra”.

Per comprendere il senso del termine basta ricordare il capo del codice penale in cui il reato è inserito, ovvero quello che mira appunto a tutelare la già citata personalità giuridica dello Stato. Atti di ostilità dunque altro non sono che tutte le azioni d’inimicizia diverse dalla guerra stessa, che risultino parimenti dannose della personalità giuridica del Paese, anche qualora non coercitive o non violente.

Se la violenza invece fosse ravvisata, troverebbe applicazione il diverso delitto di cui all’art. 241 c.p. così come emendato nel 2006.

L’ordinamento democratico della Repubblica italiana si basa ovviamente sulla nostra Costituzione, che all’articolo 1 attribuisce espressamente la sovranità al popolo.

Tale passaggio costituisce l’essenza di una democrazia nel senso proprio del termine.

La sovranità dunque è elevata a diritto, necessariamente plurisoggettivo, fondamentale dell’ordinamento.

Un atto d’intelligenza con lo straniero che comporta la sottrazione della sovranità e dell’indipendenza nazionale deve necessariamente qualificarsi come “atto ostile” a quel bene giuridico che si può definire personalità dello Stato Italiano, al suo potere d’imperio.

Ogni evento bellico è per sua definizione il tentativo di sottomettere un altro Stato menomandone proprio la sua sovranità e la sua indipendenza.

Infatti in caso di invasione armata lo Stato certamente non perde il territorio, che geograficamente rimane. Non perde neppure il popolo, che nonostante i morti conseguenti ad una guerra, non si estingue completamente.

Uno Stato invaso perde invece il potere d’imperio, ovvero la sovranità del suo popolo sul suo territorio.

Pertanto se vieti al Parlamento italiano di legiferare in materie su cui ha ceduto la propria sovranità (artt. 2 e 3 TFUE) si rientra, ad avviso di chi scrive, pienamente nel campo di applicazione della fattispecie penale.

Con buona pace dunque per il ragionamento della Corte d’Appello di Genova che è arrivata a negare la configurabilità di un illecito nell’azione del legislatore, qui non solo l’illecito assunto è l’illegittimità delle norme con cui si sono ratificate le cessioni di sovranità in violazione del precetto dell’art. 11 Cost., ma addirittura l’illecito avrebbe carattere penale in base al citato 243 c.p. norma posta appunto in difesa della sovranità stessa.

Atto ostile, giuridicamente ostile ai fini penali, è pertanto semplicemente ciò che contrasta con la personalità giuridica dello Stato menomandone indipendenza e potere d’imperio.

Ergo il carattere ostile di un atto è in re ipsa nella cessione di sovranità compiuta in violazione di principi fondamentali della nostra costituzione indipendentemente dal fatto che si possa pensare o meno che tale cessione migliorerà la qualità della vita nel nostro paese.

* * *

SUL SECONDO MOTIVO (pagg. 24-31 del ricorso)

Con il secondo motivo d’appello posto all’esame della Corte d’Appello di Genova si è richiesta la riforma della sentenza del Tribunale laddove aveva ritenuto che il diritto di sovranità che si esercita per tramite l’esercizio del diritto di voto non fosse un diritto inviolabile della persona.

La Costituzione italiana, com’è noto (o come dovrebbe esserlo), nel sancire che l’Italia è una Repubblica “democratica” fondata sul lavoro”, attribuisce il massimo rilievo al principio della sovranità popolare(art.1).
All’accoglimento del principio della sovranità popolare, nell’ambito di un sistema di democrazia rappresentativa come quella italiana, non poteva che accompagnarsi come corollario naturale l’elettorato attivo, come diritto spettante a ciascun cittadino quale titolare di una “particella di sovranità” (secondo la nota formulazione rousseauiana) di concorrere alla vita repubblicana.

Il collegamento diretto e necessario tra sovranità popolare e diritto di voto (come modo imprescindibile di esercizio della prima) emerge in modo inconfutabile dai lavori della Costituente.

Già la Relazione al Progetto di Costituzione presentata alla Presidenza dell’Assemblea il 6 febbraio 1947, nell’avvertire che “Non si comprende una costituzione democratica, se non si richiama alla fonte della sovranità, che risiede nel popolo: tutti i poteri emanano dal popolo e sono esercitati nelle forme e nei limiti della costituzione e delle leggi”, riportava quanto segue “Deve bensì rimanere fermissimo il principio della sovranità popolare. Cadute le combinazioni ottocentesche con la sovranità regia, la sovranità spetta tutta al popolo” con l’importante precisazione che “…La sovranità del popolo si esplica, mediante il voto, nell’elezione del Parlamento e nel referendum…”.

Come sia possibile considerare un simile assetto come compatibile ad esempio con la già citata indipendenza della banca centrale (art. 130 TFUE) sulle gestioni delle politiche monetarie non è dato oggettivamente sapere.

Nelle varie sedute della Seconda Sottocommissione che avrebbero portato alla scrittura dell’attuale art. 48 Cost., il tema dello stretto legame tra diritto di voto e sovranità viene affrontato a più riprese dai Costituenti.

Nella seduta del 12 settembre 1946, l’on. Conti, quale Presidente vicario, comunicava che “…dai contatti presi con la prima Sottocommissione per conoscere come questa abbia trattato la questione dell’elettorato attivo e del suffragio popolare, è risultato che essa non ha ancora preso in merito alcuna decisione. In una relazione dell’onorevole Basso sui principî dei diritti politici si propone, tra l’altro, l’approvazione di un articolo 1 del seguente tenore:

La sovranità popolare si esercita attraverso la elezione degli organi costituzionali dello Stato, mediante suffragio universale, libero, segreto, personale ed eguale. Tutti i cittadini concorrono all’esercizio di questo diritto tranne coloro che ne sono legalmente privati o che volontariamente non esercitino un’attività produttiva”.

Preoccupazione esternata ancor prima dall’on. Lussu il quale, nella seduta del 10 settembre 1946, faceva presente che “allorché si tratterà di compilare il testo definitivo… la Costituzione dovrebbe contenere anzitutto un accenno alla sovranità popolare”.

Nella seduta del 19 maggio 1947, l’on. Caristia affermava a sua volta “Democrazia e repubblica sono i pilastri della nuova Costituzione, e la democrazia, nel suo aspetto politico, ch’è quello sostanzialesi attua attraverso il godimento e l’esercizio del diritto elettorale attivo…”.

Nella seduta del 20 maggio 1947 l’on. Piemonte aveva altresì modo di ribadire che “l’espressione del voto politico è un atto di sovranità”, mentre nella seduta del giorno successivo l’on. Canepa spiegava chiaramente che il cittadino partecipa alla sovranità “coll’esercizio del voto”.

La ragione per cui nella redazione dell’attuale art. 48 Cost. non si fece poi accenno alla sovranità è ricavabile dalle parole dell’on. Tosato il quale, concordando con il presidente Terracini, affermava che “… quando si dice che sono eleggibili e sono elettori tutti i cittadini, ecc., è implicito in ciò il principio della sovranità popolare…”.

Se le parole dei Costituenti hanno ancora un minimo di senso compiuto, nonostante i cupi tempi in cui viviamo, dalle stesse si ricava che l’elettorato attivo costituisce il diritto di ogni cittadino di concorrere col voto alla formazione della volontà nazionale, il diritto di esercitare attraverso il voto la propria parte di sovranità.
Tale diritto previsto dall’art. 48 Cost. è perciò annoverato dalla dottrina nella categoria dei “diritti soggettivi pubblici” e, più specificamente, costituisce uno ius activae civitatis che vede, cioè, il cittadino titolare di una pretesa a partecipare alle elezioni degli organi rappresentativi dello Stato nonché a votare nei vari referendum, una posizione giuridica soggettiva garantita nei confronti dello stesso legislatore.

Non può parlarsi, in definitiva, di “sovranità” democratica senza il diritto soggettivo assicurato ad ogni cittadino di poterla esercitare in concreto.

E la sovranità si esercita in concreto, almeno in fase iniziale, mediante il voto.

Ripristinare la legalità del diritto di voto, in assenza di una sovranità popolare ormai svuotata di ogni contenuto, perché la sovranità è stata previamente ceduta ad organismi sovranazionali, è stato completamente inutile.

L’articolo 1, in tal senso, assurge per Mortati a “supernorma” poiché i suoi “principi generalissimi” imprimono un “preciso contenuto” normativo…potenziato” e perché fornisce “il supremo criterio interpretativo di tutte le altre disposizioni”; ciò in quanto la titolarità del potere supremo della sovranità democratica “…si pone come logico fondamento dell’ordine…”.Non esiste quindi nell’ordinamento, contrariamente a quanto affermato dal Giudice di promo grado diritto più supremo ed inviolabile

di questo.
Per essere ancora più chiari: la Costituzione attribuisce al popolo soprattutto l’esercizio della sovranità e l’esercizio della sovranità “praticamente è tutto; in assenza di concreto esercizio, la sua titolarità è “nulla.

Stessi principi sono stati peraltro ribaditi dalla stessa Consulta la quale, sul punto, non poteva che affermare come “…la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto … costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare, secondo l’art. 1, secondo comma, Cost.”.

Bisogna però precisare, come accennato, che l’esercizio della sovranità mediante l’elettorato attivo va ben oltre al “solo potere di votare, dal momento che le modalità del voto tutelano l’esercizio continuo della sovranità dello Stato democratico,

“… nel quale la democrazia ha un carattere di massa e permanentenel senso che non si esaurisce nel semplice atto elettorale: il suo esercizio del potere, infatti, non è puramente fittizio, limitato alla scelta delle persone che eserciteranno il potere per conto del popolo e, in ultima analisi, sul popolo, ma è un esercizio del potere continuo…”.

Lo stesso Gramsci in tal senso aveva già avuto modo di spiegare bene come “… il consenso non ha nel momento del voto una fase terminale, tutt’altro. Il consenso è supposto permanentemente attivo chi consente si impegna a fare qualcosa di più del comune cittadino legale, per realizzarli [programmi di lavori], a essere cioè una avanguardia di lavoro attivo e responsabile. L’elemento «volontariato» nell’iniziativa non potrebbe essere stimolato in altro modo per le più larghe moltitudini, e quando queste non siano formate di cittadini amorfi, ma di elementi produttivi qualificati, si può intendere l’importanza che la manifestazione del voto può avere…”.

Considerata la sovranità democratica in senso dispiegatamente dinamico “innescata” mediante il momento iniziale e fondamentale del voto, essa è così in grado di conformare i comportamenti dei cittadini (sovrani) i quali – in quanto popolo “sempre nell’esercizio delle proprie funzioni” – sono in grado di determinare in concreto la politica nazionale (art. 49 Cost.), partecipare alla vita del paese (art. 3 Cost.), concorrere al progresso materiale e morale di quest’ultimo (art. 4 Cost.), amministrare la giustizia (art. 101 Cost.), insomma realizzare nella sostanza – attraverso i plessi Parlamento e Governo (la “Repubblica”) diretta emanazione del popolo sovrano – quella democrazia “necessitata” del lavoro, pluriclasse e redistributiva costituente il programma ultimo ed irrinunciabile che innerva tutto l’impianto della nostra Carta Costituzionale.

Si può conseguentemente ribadire che impedire o limitare in modo certo e diretto l’art. 1 Cost. (appunto supremo principio di sovranità popolare) significa altresì vulnerare a cascata tutti gli altri principi contenuti nei successivi undici articoli della Costituzione (c.d. principi fondamentalissimi). Appunto la citata emergenza covid è un esempio eclatante di quanto si scrive.

Infatti, se la sovranità “è praticamente tutto” e se la stessa “si pone come logico fondamento dell’ordine”, violare il fondamento decreta logicamente lo sconvolgimento, o meglio, la dissoluzione dell’ordine stesso (sub specie azzeramento della sovranità). Il senso della frase “la sovranità è tutto” ci dice più semplicemente che la stessa costituisce l’alfa e l’omega della democrazia costituzionale.

Leggere quindi che il diritto plurisoggettivo di sovranità non è da considerarsi fondamentale in una sentenza è davvero qualcosa di oggettivamente inconcebile, vedere l’assunto addirittura reiterato anche in quella di secondo grado lascia addirittura senza parole.

Se è chiaro quanto detto, appare a dir poco cavilloso e formalistico affermare – basandosi semplicemente “sulla letteradell’art. 2 Cost., come ha fatto il Tribunale di Genova che la lesione del diritto di sovranità di cui all’art. 1 Cost. non possa essere ricompreso tra i diritti inviolabili (rectius, fondamentali).
Una statuizione di tal fatta denuncia in modo allarmante la mancanza di una visione sistematica ed organica dell’ordito costituzionale così come concepito dai Costituenti.

Ed invero, bisogna ribadire con forza che se l’art. 48 Cost. costituisce una “proiezione” del principio fondamentalissimo di “sovranità popolare” contenuto nell’art. 1 (e che sia così non dovrebbe a questo punto esservi dubbio), la sua violazione comporta in re ipsa non solo la violazione dell’art. 2 Cost., ma anche di tutti gli altri articoli e principi fondamentali a seguire.

Quanto poc’anzi esposto è stato illustrato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, allorché la stessa ha affrontato, con la sentenza n. 120/1967, il problema del riconoscimento del diritto di voto agli stranieri residenti. Secondo la Corte, se gli artt. 2 e 3 Cost. si applicano indipendentemente dallo status di cittadino (“…l’art. 2 riconosce a tutti, cittadini e stranieri, i diritti in violabili dell’uomo”) e se innegabile che “l’art. 3 si riferisce espressamente ai soli cittadini, è anche certo che il principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando si tratti di rispettare quei diritti fondamentali”.

Tuttavia, non tutti i diritti riconosciuti dalla Costituzione sono da ritenere in modo indistinto attribuiti a cittadini e stranieri: i “diritti inviolabili della persona” ai quali si riferisce la sent. n. 120/1967 costituiscono, infatti, secondo la Corte (cfr. sent. n. 104/1969), “un minus rispetto ai diritti di libertà riconosciuti al cittadino”.

Ed infatti, “…la riconosciuta uguaglianza di situazioni soggettive nel campo della titolarità di diritti di libertà non esclude affatto che, nelle situazioni concrete, non possano presentarsi, fra soggetti uguali, differenze di fatto che il legislatore può apprezzare e regolare nella sua discrezionalità, la quale non trova altro limite se non la razionalità del suo apprezzamento”, con particolare riferimento alla “basilare differenza esistente tra il cittadino e lo straniero, consistente nella circostanze che mentre il primo ha con lo Stato un rapporto di solito originario e comunque permanente, il secondo ne ha uno acquisito e generalmente temporaneo” (così Corte Cost. sent. n. 104/1969).
Tradotto in termini più semplici: il diritto di voto, seppur fondamentale ed inviolabile, non può essere riconosciuto erga omnes, ma solo ai cittadini. Verrebbe da aggiungere, ed è questo ciò che interessa in questa sede, “perché solo ai cittadini appartiene la sovranità”.

In definitiva, e di contro a quanto erroneamente sostenuto dal Tribunale di Genova e dalla Corte d’Appello poi, l’attribuzione della qualifica dell’inviolabilità ai diritti politici” (nel caso, il diritto di sovranità ex art. 1 che si esercita ex art. 48 Cost.), lungi dall’essere “controversa”, non potrebbe essere invece più pacifica. 

Ciò che suscita fortissime perplessità, non è solo la circostanza per cui il giudice di merito – mediante una interpretazione del tutto fuorviante – abbia negato al diritto di sovranità la qualifica di “inviolabilità”, ma ancor prima il fatto che non si sia nemmeno sforzato di recuperarne, a monte, quantomeno la valenza stessa di diritto soggettivo.

Indiscutibile quindi che le leggi di ratifica dei trattati oggetto del contendere con cui sono state ratificate illecite cessioni di sovranità debbano essere sottoposte all’attenzione della Corte Costituzionale.

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Con la massima osservanza.

Rapallo – Barcellona Pozzo di Gotto, 25 marzo 2024

avv. Marco Mori

avv. Giuseppe Sottile