Mag 07

I primi cento giorni: piena occupazione di Stato e riforma delle pensioni.

Continua la pubblicazione dell’ultimo capitolo de “La Morte della Repubblica, gli stati uniti d’Europa”. Siamo nel cuore delle proposte che vanno attuate per invertire il declino del Paese. Delle vere riforme strutturali per tornare Italia. Dopo la precondizione dell’euroexit e la nazionalizzazione dell’intero settore bancario privato, ecco cosa fare per il lavoro e le pensioni.

B) Raggiungere la piena occupazione assumendo tutti i disoccupati involontari nel settore pubblico.

La grande piaga per qualsiasi società civile è certamente la disoccupazione e qualsiasi progetto politico ha il dovere di agire in conformità con l’obiettivo stesso per cui la Repubblica è stata fondata: il lavoro. La piena occupazione è un obbligo giuridico ed è un obbligo perfettamente realizzabile allo stato attuale della tecnica. La sola ragione per cui oggi la piena occupazione non esiste è unicamente una scellerata volontà politica, che vede nella sua realizzazione un danno per i detentori del grande capitale finanziario. Tenere gran parte della popolazione disoccupata, contrariamente alle menzogne che spesso sentite dire anche in televisione, è in effetti il solo vero modo per vivere davvero al di sopra delle nostre possibilità. Una persona libera da condizionamenti mentali non può credere che lavorare oggi, con tutti i mezzi e gli uomini a disposizione, possa peggiorare la nostra situazione economica e sociale futura. Il solo pensarlo è demenziale, ma questo lo spiegava, come abbiamo visto, già ben prima di me, proprio Keynes.

Il primo punto programmatico di cui qualsiasi forza politica dovrebbe dotarsi è pertanto quello di portare il proprio paese ad avere un tasso di disoccupazione involontaria pari zero, ovvero tutti i disoccupati abili al lavoro, dovrebbero essere immediatamente impiegati nel settore pubblico dove la carenza di organico è drammatica in ogni settore.

I processi civili e panali durano troppo? Il primo modo per velocizzarli è assumere molti più magistrati ad ogni livello, eppure preferiamo mantenere disoccupati i laureati in giurisprudenza. Vogliamo più sicurezza? Serve in prima battuta un maggior presidio del territorio e dunque più uomini e mezzi disponibili in capo alle forze dell’ordine. La sanità non funziona? Servono più medici ed infermieri. E così via per ogni settore, d’altronde basta guardarsi intorno ed in qualsiasi luogo dell’Italia vi troviate comprendereste immediatamente che ci sono cose da fare ovunque. Anche la stessa messa in sicurezza del territorio nazionale, altra azione che sarebbe urgentissima, richiederebbe un numero enorme di lavoratori che se ne occupino giornalmente, ma lo stesso può dirsi anche per il più banale mantenimento del decoro urbano. Insomma con più persone che lavorano per il paese si avrebbero solo benefici, immensi benefici per tutti.

Al momento di andare in stampa la forza lavoro disponibile in Italia, che preferiamo mantenere nell’ozio per scelta politica, ammonta a non meno di sei milioni di persone. Sei milioni di persone che vorrebbero lavorare, ma vivono il dramma della disoccupazione involontaria. Visti i dati non c’è molto da discutere, la disoccupazione va immediatamente riassorbita e lo si può fare dall’oggi al domani. Peraltro i soldi corrisposti dallo Stato in stipendi, preferibili oggettivamente a qualsiasi forma di sussidio, finirebbero nei consumi, creando una crescita solida e robusta del PIL nazionale, crescita che sarebbe decisamente superiore alla spesa necessaria a pagare gli stipendi annui dei disoccupati stessi. Questa operazione comporterebbe addirittura la riduzione del famoso rapporto debito/pil. La costante obiezione di chi avversa questa tesi è il pericolo dell’inflazione, ma questa sciocca contestazione voglio rispondere ancora una volta con le parole di Keynes:

Una volta raggiunta l’occupazione piena, qualsiasi tentativo inteso ad accrescere ancora l’investimento porrà in essere una tendenza all’aumento illimitato dei prezzi in moneta, indipendentemente dalla propensione marginale al consumo; sarà così raggiunto uno stato di inflazione vera e propria. Tuttavia, fino a questo limite, all’ascesa dei prezzi andrà unito un aumento del reddito reale complessivo.”

Fino alla piena occupazione non esiste pericolo alcuno di spinte inflattive.

Peraltro la larga positività di politiche di spesa espansive è stata riconosciuta anche dallo stesso Fondo Monetario Internazionale. Dopo aver raso al suolo la Grecia, imponendo le ben note politiche di austerità, ammise candidamente di aver sottostimato gli effetti negativi sul PIL del taglio della spesa pubblica.

Precisamente la sottostima di quelli che tecnicamente prendono il nome di moltiplicatori fiscali della spesa fu ammessa dall’ex Direttore del dipartimento di ricerca del Fondo stesso, Olivier Blanchard. In particolare si ipotizzò che ad ogni euro di spesa pubblica tagliata, il pil greco sarebbe sceso solo di 0,5. Per tale ragione il rapporto debito/pil si sarebbe dovuto ridurre, invece accadde l’esatto opposto. Ovvero il moltiplicatore fu almeno tre volte più grande, ovvero per ogni euro di spesa tagliata il pil scese di un euro e mezzo. Il solo metodo per rispettare l’inutile parametro, concepito direttamente nell’incubo del contabile, del 60% tra debito e PIL sarebbe proprio quello di violare quello relativo al rapporto deficit/pil, facendo politiche di disavanzo primario. Dunque assumere tutti i disoccupati è non solo un’azione intelligente dal punto di vista reale, ma migliorerebbe pure nettamente i conti pubblici nazionali.

Consentitemi di ringraziare pubblicamente la MMT per aver messo nero su bianco dal punto di vista tecnico una proposta rivoluzionaria come quella dei piani di lavoro garantito, che sono la piana attuazione di quanto ho appena scritto. In sostanza sulla base dell’esposto ragionamento, tutta la forza lavoro inoccupata deve essere sempre assorbita nel settore pubblico. L’espansione economica che la spesa degli stipendi ottenuti provocherà nell’economia rilancerà il settore privato, che per trovare personale andrà a quel punto a pescare fisiologicamente tra i dipendenti pubblici impiegati e dovrà offrirgli condizioni migliori. Il settore pubblico così facendo si espanderà nei periodi di contrazione del settore privato e si comprimerà quando accadrà il contrario. In questo modo finiremo finalmente di vivere sopra le nostre possibilità.

C) Riforma delle pensioni.

Tanto la legge Fornero, quanto la famosa quota cento di impronta leghista, sono ipotesi di riforma delle pensioni che restano all’interno di una società immaginata sempre come l’incubo del contabile. L’età pensionabile non deve dipendere, se ci liberiamo dalle logiche di un’inapplicabile contabilità finanziaria, da astrusi calcoli, ma solo dalle necessità del mondo reale e dai suoi bisogni. Ovvero in una società in cui manchi la forza lavoro necessaria al suo sostentamento, fisiologicamente l’età pensionabile dovrebbe essere posticipata. Solo una politica attiva sulle nascite, ovvero con forti incentivi economici in favore delle famiglie più numerose, potrebbe in questo caso consentire negli anni di abbattere tale età. Ma, al contrario, se la forza lavoro disponibile è sufficiente per soddisfare ogni nostro bisogno, l’età pensionabile potrebbe essere tranquillamente abbassata. I conti pubblici non centrano nulla, se non nelle menti clinicamente patologiche dei liberisti più convinti.

In un’ipotetica società futuristica, dove le macchine svolgono la maggior parte del lavoro al posto nostro, l’età pensionabile potrebbe anche essere quarant’anni o perfino meno.

Non dobbiamo aver paura di pagare pensioni in assenza di coperture. I contributi, dal punto di vista macroeconomico, non hanno altro che la funzione di qualsivoglia tassa: redistribuire la moneta e drenare dall’economia quella in eccesso. Se non ci sono spinte inflattive eccessive, non vi è alcuna ragione per preoccuparsi di immettere nuova base monetaria per pagare le pensioni che non risultino integralmente o parzialmente coperte dai versamenti. Le pensioni finiranno nei consumi di beni o servizi e la produzione del paese aumenterà di conseguenza.

Con gli attuali livelli tecnologici si fa certamente prima a produrre di più in caso di un aumento della domanda, piuttosto che ad alzare i prezzi in modo esponenziale. Non esiste alcun esempio di crisi inflattive in epoche moderne in nazioni ad alta industrializzazione, salvo che esse non siano dovute a shock esterni. Qui penso alle crisi degli anni settanta ad esempio. Esse colpirono anche paese industrializzati, ma non perché avessero esagerato nella spesa, li colpirono perché il prezzo di una materia prima come il petrolio era aumentato in forza della riduzione della produzione. La crisi inflattiva del 1973 fu infatti dovuta alle conseguenze della guerra del Kippur, quella del 1979 a quelle della rivoluzione in Iran.