Mag 02

Curare i malati? Non conviene alle case farmaceutiche, parola di Goldman Sachs

Il tema “sanità” è stato più volte sfiorato nei miei articoli e nelle mie conferenze. Per quanto non ami trattare di materie su cui non ho una preparazione specifica, non possono omettere di effettuare alcune considerazioni di carattere generale su un argomento così importante e delicato.

La prima e più radicale ovvietà, che tuttavia è assente nel dibattito dominante, è certamente quella che profitto e salute non sono minimamente compatibili. Laddove un privato si occupa di salute non è certamente il malato ad essere al centro della sua attività d’impresa. L’obiettivo è chiaramente, come in ogni altra attività commerciale, quello di raggiungere il maggior profitto possibile.

La nostra Costituzione, come ho più volte spiegato, subordina espressamente l’iniziativa privata all’utilità sociale (art. 41 Cost.) e specificatamente, per quanto riguarda la salute, riconosce alla Repubblica il fondamentale ruolo di tutela della stessa (art. 32 Cost.). La forza dello Stato nella sanità è negli anni evaporata gradualmente a causa del dominio, sempre più netto, di società private che hanno nei fatti monopolizzato, in primis, la ricerca. Pare francamente incredibile che spesso non si rifletta, o addirittura non si comprenda neppure se sollecitati al dibattito, che una cura che debellasse definitivamente una malattia con un’unica somministrazione, non sarà mai compatibile con il bilancio di una casa farmaceutica. In sostanza se si guadagnano miliardi sul trattamento di malattie croniche o cronicizzate (non uso volutamente il termine “cura”), non esiste ragione al mondo per ricercare un qualcosa che risolva il problema definitivamente.

Questo non è complottismo, ma la normale logica di ogni business. Va tutto bene finché si tratta di commercializzare beni o servizi superflui, in settori privi di un preminente interesse pubblico, ma quando si toccano invece campi che si intrecciano con i diritti inalienabili dell’uomo il problema si crea, ed è un problema davvero gigantesco. La messa in commercio di un farmaco, da parte di un’impresa avente scopo di lucro, è ovviamente legata in primo luogo alla sua resa economica e solo in via subordinata alla sua maggiore efficacia. Infatti se pur è evidente che una casa farmaceutica commetterebbe reato se cercasse di danneggiarci, occorre anche tenere a mente che nessuna legge le può imporre su quali tipi di ricerche investire. Dunque la ricerca va solo dove vi è la possibilità di massimizzare il profitto.

Complottismo in definitiva è, casomai, pensare che una multinazionale decida di rinunciare a miliardi di utili o addirittura si metta a rischio fallimento, per commercializzare un farmaco da cosiddetto “one shot”. Ovvero un trattamento di una patologia che comporta un unico e risolutivo intervento medico. Certamente gli enormi sforzi di ricerca delle case farmaceutiche hanno aumentato nel corso degli anni la vita media, anche negare questo sarebbe complottismo, ma quanto fatto è molto meno di quanto si sarebbe potuto fare in forza delle nuove possibilità tecnologiche e scientifiche. La ricerca medica privata è l’emblema dell’inefficienza.

Se fosse stato il settore pubblico a mettere sul piatto lo stesso sforzo in termini di mezzi ed uomini, oggi il progresso della medicina sarebbe stato al di là di ogni immaginazione. Quando infatti lo sforzo dei singoli è diretto, coordinato e controllato verso il pubblico interesse, il progresso che ne consegue è innumerevoli volte più rapido di quando è affidato alle leggi di mercato, che altro non sono che la mera deregolamentazione della nostra società. La nostra storia, benché si faccia di tutto per non ammetterlo, è piena di dimostrazioni in tal senso. Lo sforzo bellico della seconda guerra mondiale né è uno degli esempi recenti più evidenti.

Nei pochi anni di conflitto il progresso scientifico è stato straordinario e questo semplicemente perché durante esso lo sforzo produttivo delle nazioni coinvolte era diretto, controllato e coordinato da un’unica regia, ovviamente quella dello Stato, il quale per perseguire un obiettivo indirizzò e coordinò a tale fine ogni sforzo individuale. La guerra così portò a scoperte tecnologiche sensazionali. In fase post bellica lo sforzo consentì ad esempio addirittura all’uomo di iniziare la corsa allo spazio, grazie all’invenzione del motore a reazione. Se tale capacità fosse stata impiegata a fini di pace, anziché diretta al conflitto, non ci sarebbero stati limiti al livello tecnologico che avremmo potuto raggiungere in pochi decenni. Invece è innegabile che da allora il progresso c’è stato unicamente laddove vi è un margine per una resa economica importante, dimenticando tutto il resto. Utilizziamo addirittura gli stessi combustibili fossili del secolo scorso, perché superarli causerebbe una danno economico a chi, proprio in forza del conseguente potere politico che deriva dalla ricchezza, ha la forza di influenzare, quando non di imporre direttamente, le scelte di governo.

Purtroppo oggi gli interessi di questi poteri hanno addirittura spinto a demonizzare pubblicamente lo Stato e la sua capacità produttiva. Un’abile strategia mediatica ha distorto la percezione delle masse che oggi vedono nel pubblico unicamente sprechi e tasse. Questo è avvenuto appunto perché i privati, che avevano raggiunto un maggior livello di ricchezza, e dunque appunto di potere, vedevano nel settore pubblico un concorrente insuperabile, che ne limitava i margini di profitto e soprattutto d’influenza politica.

Lo Stato infatti, se è tale, non ha limiti finanziari e non è vincolato a logiche di profitto, può gestire qualsiasi settore anche in perdita economica secca, a patto ovviamente di avere il controllo della propria moneta ovviamente. Mano a mano che si sono convinti gli Stati, attraverso un fenomeno di corruzione sistemica, dovuto alle ragioni esposte, ad abbandonare la sovranità monetaria, essi sono stati retrocessi al livello di qualsivoglia soggetto privato. Così è stato semplice, per esigenze di liquidità, convincere le nazioni ad abbandonare quei settori in cui grandi gruppi economici privati avevano ampio spazio di profitto.

E’ di stretta attualità sul punto il drammatico report di Goldman Sachs, citato proprio oggi da alcune fonti di stampa, dopo il primo rilancio compiuto ad opera dell’emittente CNBC.

In esso testualmente si legge che: La possibilità di somministrare una “cura one shot” è uno degli aspetti più attraenti della terapia genica (omissis…). Tuttavia tali trattamenti offrono una prospettiva molto diversa per quanto riguarda i guadagni, se confrontato con i guadagni che ci sono nelle terapie croniche (omissis…). Se questa possibilità rappresenta un enorme valore per i pazienti e per la società, può rappresentare una sfida difficile per coloro che sviluppano medicine basate sulla genetica e cercano guadagni”.

In sostanza, sviluppare farmaci che guariscono i pazienti non è conveniente, ergo la ricerca medica va nella direzione opposta a quella più adatta alla tutela della salute. Una ricerca che cura i sintomi ma lascia intatte le malattie, questo è il massimo del business possibile nel comparto sanità. Ecco perché oggi, ad esempio, stavolta voglio entrare un filo più nello specifico, il tumore resta a tutti gli effetti, contrariamente a quanto vi raccontano superficialmente sempre certi media, una malattia completamente incurabile (salvi i casi di rimozione chirurgica totale). I trattamenti chemioterapici, quantomeno nei pazienti inoperabili, puntano unicamente a cronicizzare la malattia per il maggior tempo possibile, poiché solo così il conseguente business diviene letteralmente immenso. Non si parla infatti di guarigione neppure nelle statistiche specifiche, ma solamente di anni di sopravvivenza. Non vi è nessuna possibilità che la cura dei tumori sia approfondita nella direzione “one shot”, salvo che non sia lo Stato a tornare ad occuparsene diventando concorrente diretto delle lobby farmaceutiche.

Non a caso ogni trattamento terapeutico “alternativo”, benché la chemioterapia, com’è evidente anche solo guardandosi intorno, non funzioni affatto bene, è osteggiato addirittura dalla stampa. Questo avviene nonostante vi siano molti studi che dimostrano risultati incoraggianti da terapie “alternative”, ma visto che non garantiscono i medesimi margini di profitto, non sono approfonditi dalle case farmaceutiche. Un esempio di terapia antitumorale alternativa molto diffuso, trattato in vari articoli scientifici, è quello della somministrazione nei pazienti per via endovenosa di vitamina C in altissimi dosaggi. Ma ovviamente la vitamina C non rende come i chemioterapici e non è un argomento di interesse delle multinazionali.

Scriveva sul punto la rivista Focus già il 6 febbraio 2014: “Alla fine degli anni ’70, Linus Pauling, due volte vincitore del premio Nobel (omissis…) sosteneva che alte dosi di acido ascorbico, altro nome del composto, erano in grado di prevenire e trattare molti tipi di tumore (omissis…). Nel nuovo studio, Qi Chen e colleghi dell’University of Kansas hanno prima esaminato l’effetto dell’acido ascorbico in laboratorio su linee cellulari di vari tumori (su cui hanno dimostrato un effetto tossico), poi l’hanno somministrato per via endovenosa e a dosi altissime, tra dieci e cento volte superiori a quelle normalmente presenti nell’organismo, a topi a cui erano stati indotti tumori (omissis…). Negli animali alla cui chemioterapia era stata aggiunta la vitamina C i tumori si sono ridotti assai di più di quelli sottoposti alla chemioterapia”.

Il test è stato ripetuto su esseri umani sempre con buoni risultati, e altrettanto buone sembrano essere le esperienze di chi oggi, in tutta Italia, si cura proprio così. L’articolo su Focus si concludeva già allora con queste amarissime considerazioni: Gli scienziati ipotizzano che la vitamina C somministrata in vena ad alte dosi agisca in realtà proprio come ossidante, cioè aiuti le sostanze chemioterapiche nell’opera di danneggiamento delle cellule tumorali, risparmiando però quelle sane. Interrogativi che andrebbero sciolti con altri studi. Il problema è chi potrebbe essere interessato a finanziarli, dato che la vitamina C costa poco e non è brevettabile. L’unica è che, come chiedono gli autori dello studio, entrino in gioco enti pubblici.

Correva il 6 febbraio 2014 e a quanto è dato sapere non risulta che alcun Paese abbia finanziato studi di questo genere, studi che rischierebbero di mettere in ginocchio i bilanci di alcune delle più note multinazionali del farmaco. E gli esempi potrebbero essere innumerevoli e ben oltre il problema delle mere cure antitumorali. Ma in definitiva, a prescindere dall’esempio appena riportato, ciò che davvero conta è che la ricerca sia finalmente liberata da logiche di profitto ed allora potremmo finalmente avere progresso. Tutto questo richiede il riscatto della sovranità nazionale ed in particolare il ritorno alla sovranità monetaria. Il controllo dell’emissione della moneta da parte di privati è infatti la leva con cui arrivare a controllare successivamente ogni altro settore, la leva per controllare le nostre vite, sostituendo una nuova forma di oligarchia alle attuali decadenti democrazie. Se la nostra civiltà sopravviverà anche a questa fase, evitando catastrofici conflitti, sarà davvero interessante leggere un domani quale sarà l’analisi degli storici sulla nostra epoca.

Dedico questo articolo a mio Padre Adriano, venuto prematuramente a mancare per un male che resterà certamente incurabile fino a quando la ricerca non tornerà ad essere prerogativa di Stato (niente condoglianze nei commenti a questo articolo, commentate solo il merito, vi ringrazio).

Riprendiamoci le nostre maledette chiavi di casa!

Avv. Marco Mori autore de “La morte della Repubblica” edito Altaforte e de “Il tramonto della democrazia”, edito Agorà & Co.